La bolla dell’AI non è più l’elefante nella stanza
Non puoi far finta di niente. Se provi a ignorarlo, lo fai a tuo rischio e pericolo.
Bolla AI: per mesi la domanda non è stata se questa bolla scoppierà, ma quando. Ora, però, sta succedendo qualcosa di più sottile e, forse, più inquietante: ci sono segnali concreti che il pallone non è più in espansione incontrollata. In alcuni punti ha iniziato a sfiatare. Non vediamo ancora la scena di sangue, ma il clown ha già dato la prima coltellata.
Bolla AI: una bolla “di sistema”, non di settore
Questa non è una bolla qualunque. Nella bolla dot-com, a gonfiarsi erano soprattutto le quotazioni di un settore specifico. Oggi l’AI è intrecciata con tre dimensioni diverse:
- i mercati azionari globali, dove le big tech pesano enormemente sugli indici;
- gli investimenti infrastrutturali, con cifre mai viste in data center, chip, energia;
- le aspettative macroeconomiche, perché l’AI è già stata pre-incassata nelle previsioni di produttività futura.
Alcuni numeri, giusto per mettere la cornice:
- I quattro grandi hyperscaler (Alphabet, Microsoft, Amazon, Meta) hanno investito circa 200 miliardi di dollari in CapEx su 290 miliardi complessivi nel 2024, con una crescita attesa di oltre il 40% nel 2025 legata in larga parte ai carichi AI.
- Jensen Huang (Nvidia) parla di una possibile spesa annuale globale per data center AI tra 3 e 4 trilioni di dollari entro il 2030, contro i circa 600 miliardi stimati per il 2025.
- Il solo segmento generative AI ha attirato circa 45 miliardi di dollari di venture capital nel 2024, quasi il doppio rispetto ai 24 miliardi del 2023; i round late stage sono esplosi da 48 a 327 milioni di dollari medi.
- Alcune stime parlano di un totale di circa 405 miliardi di CapEx collegati all’AI nel 2025, dopo revisioni al rialzo rispetto alle proiezioni iniziali di “soli” 250 miliardi.
Non è solo un settore hot: è diventato il motore principale della spesa tecnologica globale, della narrativa di Borsa e, sempre più, della pianificazione energetica dei Paesi avanzati.
Quando una cosa del genere scoppia, non rompe “un pezzo del mercato”: incrina la fiducia nei meccanismi che tengono insieme finanza, tecnologia e politica industriale.
Il problema non è l’AI in sé. È la velocità (e la leva)
Va chiarito un punto subito: non è in discussione il fatto che l’AI generi valore reale.
I casi d’uso concreti esistono:
- automazione della reportistica,
- assistenti alla programmazione,
- supporto alla diagnosi medica,
- ottimizzazione logistica,
- strumenti di produttività personale.
I primi dati mostrano miglioramenti di efficienza in diversi comparti professionali, dall’IT al legal.
Il problema, da un punto di vista economico, è un altro:
La velocità con cui il capitale sta affluendo sull’AI è molto superiore alla velocità con cui i ricavi sostenibili riescono a maturare.
In altre parole: in pochi anni abbiamo anticipato in Borsa, nei data center e nei business plan benefici di produttività che richiedono almeno un decennio per dispiegarsi davvero.
Nel frattempo:
- la maggior parte delle startup generative AI non è profittevole;
- i costi infrastrutturali (GPU, energia, raffreddamento) sono enormi e in crescita;
- molte applicazioni sono ancora “nice to have”, non “mission critical”.
È l’equivalente di costruire un’autostrada da 10 corsie sperando che, prima o poi, qualcuno inventi le auto che la riempiranno.
Il conto energetico: l’AI come macchina mangia-watt
L’altra variabile spesso sottovalutata è l’energia. Secondo l’Agenzia Internazionale dell’Energia (IEA), il consumo elettrico dei data center raddoppierà entro il 2030, arrivando intorno ai 945 TWh l’anno, quasi il triplo del consumo elettrico annuale del Regno Unito nel 2023.
Stime di Goldman Sachs e altri operatori parlano di un aumento fino al 165% della domanda di energia per i data center entro il 2030 rispetto al 2023, con gli USA come epicentro della crescita.
Tradotto:
- le utility elettriche ricevono richieste di capacità che spesso eccedono le possibilità a breve termine;
- molti progetti di data center affrontano ritardi per colli di bottiglia nella rete, autorizzazioni e infrastrutture;
- l’acqua per il raffreddamento diventa un tema politico oltre che ambientale.
Non è solo una questione “green”: è una questione di funzionamento dell’economia reale. Se una fetta crescente della capacità elettrica va assorbita da infrastrutture AI:
- o si costruono nuove capacità produttive (spesso con investimenti pubblici impliciti o espliciti),
- o si sottrae energia ad altri usi industriali.
In entrambi i casi, la scommessa è gigantesca: stiamo riallocando fattori produttivi scarsi (capitale, energia, talenti) su un paradigma tecnologico il cui ritorno netto non è ancora dimostrato su base macro.
I segnali della bolla: quando il clown inizia a tremare
Quali sono i classici sintomi di una bolla?
- Valutazioni scollegate dai fondamentali. Alcuni giganti AI-adjacent hanno raggiunto capitalizzazioni nell’ordine dei diversi trilioni di dollari, con un peso enorme sugli indici globali. Un produttore di chip che arriva a valere oltre 4–5 trilioni, spingendo analisti e investitori a chiedersi se non si stia prezzando una crescita infinita del fabbisogno di calcolo.
- Narrative totalizzanti. L’AI come “quarta rivoluzione industriale”, “più importante dell’elettricità”, “fine del lavoro come lo conosciamo”. Ogni settore “deve” avere la sua storia AI per non essere penalizzato.
- CapEx che inseguono CapEx. Non si investe più per soddisfare una domanda chiara, ma per non restare indietro nel “grande gioco”: costruisco data center perché il mio concorrente li costruisce, perché gli investitori se lo aspettano, perché il mercato premia chi annuncia piani più aggressivi.
- Finanza che inizia a coprirsi. Investitori come Michael Burry (quello reso famoso da The Big Short) hanno già aperto posizioni ribassiste esplicite contro alcune delle storie AI più calde, definendo la dinamica attuale una bolla.
- Debito e leva crescenti. Si parla già di migliaia di miliardi di dollari di debito potenzialmente legato a progetti di data center e infrastrutture AI, spesso giustificati da proiezioni di utilizzo che potrebbero rivelarsi ottimistiche.
Questi non sono segnali di “fine del mondo”, ma sono esattamente gli ingredienti che abbiamo visto in tutte le grandi bolle speculative della storia: ferroviaria, elettrica, dot-com, housing.
Il caso Meta: quando il growth diventa ossessione
Ed eccoci a Zuckerberg. Facebook, come piattaforma originaria, non è più il luogo dove “succede il nuovo”. È un mix di:
- utenti più anziani,
- gruppi di nicchia,
- contenuti riciclati,
- e, sempre più spesso, bot e automazioni.
La crescita reale di attenzione e tempo speso si è spostata altrove: TikTok, YouTube, piattaforme verticali. Meta regge grazie al suo ecosistema:
- Instagram, che rimane fortissimo,
- WhatsApp, macchina da comunicazione e – in prospettiva – da pagamenti,
- e una delle più grandi concentrazioni di dati comportamentali al mondo.
Ma per il mercato questo non basta: serve crescita futura. E da anni Zuckerberg insegue la “next big thing”:
- il metaverso miliardario che non ha mai trovato un vero product-market fit,
- la criptovaluta interna abortita per ragioni regolamentari,
- gli smart glasses come interfaccia del futuro,
- e ora l’AI come nuovo totem.
Per giocare con i “ragazzi grandi” dell’AI – Microsoft, Google, Amazon – Meta deve mettere sul tavolo numeri di investimento comparabili. E infatti:
- nel 2024 il CapEx è salito oltre i 39 miliardi di dollari, con un trimestre da quasi 15 miliardi;
- per il 2025 Zuckerberg ha annunciato fino a 65 miliardi di CapEx, in gran parte destinati a infrastrutture AI (server, data center, GPU, energia), ben sopra le attese degli analisti;
- a settembre 2025 circolano stime secondo cui Meta potrebbe arrivare a investire, da qui al 2028, fino a 600 miliardi di dollari in data center negli Stati Uniti, con oltre un milione di GPU in campo.
Questi numeri sono quasi surreali se li confrontiamo con:
- la marginalità pubblicitaria “tradizionale”,
- la concorrenza feroce nel campo dei modelli (OpenAI, Anthropic, xAI, Google),
- e il fatto che Llama, il grande cavallo di battaglia di Meta, è open source, quindi per definizione monetizzabile in modo meno diretto rispetto ai modelli chiusi.
Zuckerberg sta facendo una scommessa tripla:
- Che l’AI generativa diventi strato di base di tutto ciò che facciamo online.
- Che i modelli aperti diventino il centro di gravità di questa trasformazione.
- Che Meta riesca a monetizzare questa posizione meglio degli altri, o quanto meno non sia espulsa dal tavolo dei vincitori.
Se queste tre cose non si avverano contemporaneamente, parte di quei 600 miliardi rischiano di essere ricordati come la più grande spesa di difesa mai fatta da un’azienda privata per non essere marginalizzata.
Venture capital, startup e la logica del “winner takes all”
Sul fronte startup, la bolla ha una dinamica diversa ma complementare. Da un lato:
- nel 2024 il funding globale alle startup è rimasto tutto sommato stabile rispetto al 2023 (circa 314 miliardi di dollari),
- ma la quota destinata all’AI – soprattutto generativa – è esplosa, con un raddoppio anno su anno di capitali investiti in questo segmento.
Dall’altro:
- i modelli di business di molte startup AI sono sottili: rivendita di API, wrapper su modelli di terzi, strumenti B2B non ancora integrati nel core operativo delle imprese;
- i costi di training e inferenza (se non si sfruttano servizi esterni) sono altissimi;
- la concorrenza da parte delle big tech, che rilasciando tool e SDK “gratis” erodono il margine potenziale.
Il risultato è una corsa collettiva basata su una narrativa:
“Devi posizionarti ora, anche se non sai ancora esattamente come monetizzerai. I margini arriveranno dopo.”
È un copione che abbiamo già visto. Funziona quando la tecnologia sottostante crea davvero nuovi mercati ad alta marginalità (come è stato per l’iPhone e gli app store). È molto meno scontato quando il grosso del valore viene catturato dall’infrastruttura (chip, cloud, energia) e dal layer di piattaforma, lasciando alle applicazioni parecchio meno margine di quanto si immaginava.

Il rischio sistemico: perché “se scoppia l’AI” non è solo una storia tech
Immaginiamo lo scenario in cui la bolla inizia davvero a sgonfiarsi in modo violento. Non parliamo di “smettono di andare di moda i chatbot”. Parliamo di:
- correzioni profonde sulle valutazioni delle big tech più esposte all’AI,
- taglio o rinvio di grandi piani di CapEx,
- riprezzamento del rischio su bond e debito legato ai data center,
- revisione brusca delle aspettative di crescita e produttività futura.
Questo, a catena, significa:
- Effetto ricchezza: Correzione sugli indici, fondi pensione e fondi indicizzati che devono ribilanciare, fiduciari che si chiedono se le promesse di “AI-driven growth” fossero eccessive.
- Effetto credito: Progetti di data center e infrastrutture AI che hanno usato leva finanziaria potrebbero trovarsi sotto pressione se i flussi di cassa attesi non si concretizzano. Alcuni potrebbero essere ristrutturati; altri congelati.
- Effetto lavoro: Se una parte dei licenziamenti fatti oggi in nome dell’AI (automazione, riduzione FTE) non si traduce in reali aumenti di produttività e nuovi business, ci ritroveremmo con meno posti di lavoro e meno crescita di quella promessa.
- Effetto energia: Una corsa all’espansione della capacità elettrica guidata da proiezioni troppo ottimistiche sulla domanda AI potrebbe lasciare in eredità infrastrutture semi-sottoutilizzate, con costi socializzati e benefici privatizzati.
È per questo che alcuni analisti iniziano a parlare dell’AI non solo come bolla tech, ma come potenziale bolla macro.
Ma allora sta già scoppiando, o no?
La risposta onesta è scomoda: non lo sappiamo. Possiamo però dire alcune cose con un buon grado di confidenza:
- I numeri di spesa e valutazione sono già oggi compatibili con una definizione di “bolla”: forte disallineamento temporale tra investimenti e ricavi, narrativa salvifica, aspettative di crescita proiettate troppo in avanti.
- Non siamo ancora nel momento Lehman: non c’è stato un evento singolo che abbia fatto esplodere l’intero castello. I flussi di investimento sono ancora robusti, soprattutto lato VC e lato hyperscaler.
- Le prime crepe sono visibili: tensioni sui sistemi elettrici, progetti rallentati, primi segnali di scetticismo strutturato da parte di alcuni investitori, dubbi sul ROI reale di certi casi d’uso.
Più che di “scoppio”, oggi si può parlare di una fase in cui:
- il clown non ride più in modo spensierato,
- comincia a guardarsi intorno nervoso,
- e qualcuno tra il pubblico si è già alzato per andare verso l’uscita.
Il contro-scenario: un atterraggio morbido (e noioso)
Esiste anche uno scenario meno teatrale, ma più probabile: l’atterraggio morbido.
In questo scenario:
- le valutazioni più folli vengono gradualmente corrette;
- molte startup AI “di contorno” verranno acquisite o chiuderanno senza fare rumore;
- gli hyperscaler rallentano leggermente il ritmo degli investimenti, ottimizzando l’utilizzo della capacità esistente;
- la regolazione – soprattutto in Europa – introduce vincoli su dati, energia, trasparenza dei modelli, rallentando un po’ la corsa, ma rendendola più sostenibile.
In parallelo, l’AI matura:
- si integra in modo meno spettacolare ma più profondo in ERP, CRM, sistemi industriali;
- smette di essere “feature marketing” e diventa “plumbing”: invisibile ma utile;
- sposta davvero il needle di produttività, ma in modo distribuito e progressivo, non con una fiammata.
In questo scenario il clown non uccide nessuno. Semplicemente, un giorno, si toglie il trucco e scopriamo che sotto c’era “solo” una nuova tecnologia importante, sopravvalutata all’inizio e assorbita poi dal sistema.
Cosa ci dice, in fondo, il clown dell’AI
La metafora del clown fuori di testa con il coltello non serve a fare terrorismo psicologico. Serve a ricordarci tre cose semplici:
- Non puoi ignorare l’AI. Fingere che sia una moda passeggera è una strategia perdente. Cambierà davvero processi, mercati, lavoro.
- Non puoi nemmeno crederci ciecamente. Accettare senza spirito critico qualsiasi narrativa “AI = futuro garantito” è altrettanto pericoloso. Le bolle nascono dal pensiero binario: o tutto, o niente.
- L’unico atteggiamento sano è quello dell’investitore adulto. Guardare i numeri, distinguere tra hype e valore, capire dove l’AI crea margini veri e dove è solo un sovrapprezzo temporaneo.
Il clown dell’AI è già in mezzo a noi:
- veste i panni di piani industriali eccessivamente ottimistici,
- di business plan costruiti su promesse vaghe di “automazione totale”,
- di valutazioni in Borsa che presuppongono crescita esponenziale eterna.
La domanda non è se comparirà. È se, quando inizierà a muovere il coltello, saremo tra quelli legati alla sedia a fissarlo o tra quelli che hanno già studiato le uscite di sicurezza.
