Intelligenza artificiale e futuro del lavoro in una fabbrica automatizzata con robot e un operaio osservato da schermi.

Il lavoro è finito? Di sicuro nessuno vuole dirlo

Dall’America alla Cina, l’intelligenza artificiale non sta solo cambiando il modo di lavorare. Sta riscrivendo il senso stesso del lavoro.

Il paradosso dell’innovazione senza futuro

Intelligenza artificiale e futuro del lavoro. C’è online un articolo – breve ma ben scritto – di Massimo Gaggi, che racconta dell’ondata di licenziamenti negli USA conseguente all’adozione sempre più massiccia dell’AI in determinati settori. Due punti, in particolare, mi hanno colpito e penso che meritino una particolare riflessione: li cito testualmente.

  1. Dario Amodei, all’avanguardia, con la sua Anthropic, nello sviluppo dei modelli di AI, avverte che l’intelligenza delle macchine potrà sostituire metà dei lavori professionali di livello intermedio: traduttori, programmatori, uffici legali, contabili, addetti alla diagnostica medica, giornalisti e molto altro. Molti capi dei giganti tecnologici condividono questa analisi, ma preferiscono non parlarne: perché pensano che nasceranno nuovi lavori, ma per ora non sanno indicarne nemmeno uno.
  2. Otto anni fa, intervenendo a un seminario del MIT di Boston, Kai-Fu Lee, scienziato e imprenditore cinese che ha studiato nelle università Usa e ha lavorato a lungo per Google, Apple e Microsoft, sostenne che la Cina avrebbe sopravanzato gli Usa nell’AI. La quale, potendo sostituire l’uomo in moltissime mansioni a tutti i livelli, imponeva un ripensamento del concetto stesso di lavoro da avviare il prima possibile. La platea, composta quasi interamente da accademici, accolse le sue previsioni con una certa ilarità. Otto anni dopo la rivista tecnologica del MIT spiega perché la Cina sta vincendo la corsa dell’AI. Forse va presa sul serio anche l’altra previsione di Kai-Fu Lee.

Sul primo, la riflessione di Amodei mi pare brutalmente onesta, soprattutto venendo da chi sviluppa questi sistemi. Il fatto che i leader tecnologici “non sappiano indicarne nemmeno uno” dei nuovi lavori che dovrebbero emergere è inquietante. È facile invocare il precedente storico delle rivoluzioni industriali, ma questa volta c’è una differenza qualitativa fondamentale: stiamo automatizzando il pensiero, non i muscoli. E la velocità è incomparabile – quello che prima richiedeva generazioni ora accade in anni se non mesi.

L’articolo coglie bene il paradosso: chi guida questa trasformazione sa che creerà enormi disruption ma non ha un piano B credibile per chi verrà spiazzato. La vaghezza sul “nasceranno nuovi lavori” ricorda le promesse non mantenute della globalizzazione agli operai delle fabbriche delocalizzate.

Sul secondo, va evidenziato come sia emblematico che gli accademici del MIT abbiano riso otto anni fa. Dimostra quanto anche le élite intellettuali possano sottovalutare i cambiamenti sistemici. La Cina ha capito che l’AI è una tecnologia di controllo generale – non solo economico ma sociale – e l’ha trattata come priorità strategica nazionale mentre l’Occidente dibatteva di etica e regolamentazione.

Otto anni dopo, chi rideva non ride più

La domanda cruciale che Lee poneva otto anni fa – ripensare il concetto stesso di lavoro – resta inevasa. Continuiamo a ragionare con categorie del XX secolo (occupazione, produttività, crescita del PIL) mentre la tecnologia ci sta portando verso un’economia dove il lavoro umano potrebbe diventare largamente superfluo per la produzione di valore economico.

Questo è un paradosso fondamentale che però nessuno vuole affrontare seriamente (evitando di citare il reddito di cittadinanza, che è stato tutt’altro), Il reddito universale viene spesso presentato come soluzione tecnica a un problema economico, ma non si vuole dire che sia nel contempo una bomba sociale innescata. Oppure non lo si capisce proprio.

Il conflitto strutturale diventa inevitabile: immaginate di essere un infermiere, un idraulico o un tecnico specializzato che deve alzarsi alle 6 del mattino mentre il vostro vicino, ex impiegato sostituito dall’AI, riceve un assegno pubblico. Non è solo questione economica – è la demolizione del contratto sociale su cui si basa l’Occidente: il lavoro come fonte di dignità, identità e legittimazione del reddito.

Il modello che si sta delineando nell’indifferenza generale somiglia pericolosamente a un neo-feudalesimo tecnologico:

  • Un’élite ristretta che possiede gli asset tecnologici (AI, robot, piattaforme)
  • Una classe di tecnici altamente specializzati necessari per mantenere il sistema
  • Una massa di “inutili” mantenuti con sussidi minimi per evitare rivolte

La Cina sta sperimentando un modello alternativo ancora più inquietante: usa l’AI per creare lavori artificiali e sistemi di credito sociale che mantengono le persone “occupate” anche se economicamente superflue. È controllo sociale mascherato da piena occupazione, anzi, vale la pena analizzarlo più dettagliatamente

Il modello del partito comunista cinese

Siamo di fronte ad un esperimento di ingegneria sociale su scala mai vista prima. Ecco come funziona concretamente:

I “lavori artificiali” creati dallo Stato:

  • Sorveglianti digitali di comunità (网格员): milioni di persone pagate per monitorare i social media, segnalare “comportamenti anomali” nei quartieri, verificare il rispetto delle politiche. Non producono valore economico ma creano capillarità di controllo.
  • “Civilizzatori urbani” (城管): squadre che pattugliano per far rispettare regole minuziose – dal parcheggio delle bici al decoro urbano. Spesso ex-operai ricollocati.
  • Moderatori di contenuti: eserciti di persone che filtrano manualmente i contenuti online, nonostante l’AI potrebbe farlo meglio. Alibaba e Bytedance ne impiegano centinaia di migliaia.
  • App statali di propaganda: Xuexi Qiangguo ha milioni di “amministratori locali” che organizzano sessioni di studio obbligatorie del pensiero di Xi Jinping, con punti e classifiche.

Il sistema di credito sociale come occupazione perpetua: Il Sesame Credit (芝麻信用) e sistemi simili trasformano ogni cittadino in un “lavoratore” a tempo pieno del proprio punteggio:

  • Fare volontariato (+punti)
  • Visitare genitori anziani (+punti)
  • Comprare prodotti nazionali (+punti)
  • Criticare online il governo (-punti)
  • Giocare troppo ai videogiochi (-punti)

Le persone passano ore a “ottimizzare” il loro score, che determina accesso a mutui, scuole per i figli, possibilità di viaggiare. È lavoro non retribuito mascherato da gamification civica.

L’AI come moltiplicatore di micro-task inutili:

  • “Etichettatori di dati”: milioni addestrano AI già funzionanti, ri-etichettando dati già processati
  • “Verificatori umani”: controllano output di AI che non necessitano verifica
  • “Assistenti digitali locali”: intermediari umani per servizi che potrebbero essere completamente automatizzati

È sostenibile tutto ciò?

No, è un palliativo che compra tempo ma crea problemi ancor maggiori:

  1. Costo fiscale esplosivo: mantenere milioni in pseudo-lavori drena risorse che potrebbero andare a innovazione reale. Le amministrazioni locali cinesi sono già indebitate per 9 trilioni di dollari, molto per mantenere questa foglaia di fico occupazionale.
  2. Degrado del capitale umano: una generazione che fa lavori finti perde competenze reali. Quando serviranno veri talenti, la Cina avrà milioni di burocrati digitali incapaci di produrre valore.
  3. Trappola dell’aspettativa: una volta che milioni dipendono da questi pseudo-lavori, eliminarli diventa politicamente impossibile. È l’URSS 2.0 – tutti impiegati, nessuno produttivo.
  4. Innovazione soffocata: perché rischiare e innovare quando lo Stato garantisce un lavoro inutile ma sicuro? Il dinamismo imprenditoriale cinese sta già calando.

Vi sarà evidente che il vero obiettivo non sia economico ma politico: il PCC preferisce 100 milioni di persone “occupate” in attività di sorveglianza reciproca piuttosto che 100 milioni di disoccupati arrabbiati. È la versione digitale del “meglio rossi che esperti” di Mao. Ma anche un po’ dell’Italia fascista in cui, per i giovani dai sei ai diciotto anni, il controllo del comportamento era eseguito dai comitati comunali e rionali dell’Opera nazionale balilla, che creavano coinvolgimento nelle dinamiche del partito basandosi su controllo e delazione, facendoli nel contempo credere di essere utili ed integrati.

Ma attenzione: l’Occidente sta importando sempre più elementi di questo modello. Le big tech assumono migliaia di “content moderator”, i governi creano “fact-checker” e “diversity officer”. Stiamo scivolando verso lo stesso palliativo, solo con una verniciatura democratica. E la domanda vera quanto urgente è: quanto tempo abbiamo prima che il palliativo diventi la norma permanente?

Ripensare il concetto stesso di lavoro… come?

La domanda resta centrale e scomodissima: perché la risposta onesta è che nessuno lo sa davvero, e chi afferma il contrario o è in buona fede ingenua o in malafede rassicurante.

Possiamo però provare a separare la propaganda dalle ipotesi concrete — e vedere dove, realisticamente, potrebbe collocarsi una parte dell’umanità “demansionata dall’AI”.

Ecco quelli plausibili ma quantitativamente irrilevanti:

  • AI Trainer / Prompt Engineer / Data Curator: lavori che servono a “educare” o ottimizzare i modelli.
    Problema: richiedono competenze avanzate e sono presto automatizzabili dagli stessi modelli.
  • Ethics & Compliance Manager per l’AI: figure che vigilano sull’uso corretto dei sistemi.
    Ma quante ne servono, realisticamente? Poche migliaia nel mondo, non milioni.
  • Integratori uomo-macchina: ruoli in ambito medico, educativo, legale, dove l’uomo supervisiona o traduce l’output dell’AI.
    Lavori “di confine”, preziosi ma limitati.
  • Designer di interfacce empatiche / Narrative AI Developer: mestieri creativi che uniscono psicologia, storytelling e tecnologia.
    Interessanti, ma sempre elitari.

In sintesi: ruoli di supervisione e mediazione tra umano e macchina — ottimi per pochi, irrilevanti per i molti.

L’area ancora “resistente” alla sostituzione

Ci sono invece ambiti che l’AI fatica ancora a coprire, non per limiti tecnici ma per barriere sociali, culturali e relazionali.

Qui potrebbe esserci spazio per una riconversione di massa, se accompagnata da politiche intelligenti:

  • Cura della persona: assistenza domiciliare, infermieristica, accompagnamento sociale, sostegno alla disabilità. L’AI può gestire, non accudire. Il contatto umano rimane imprescindibile.
  • Manutenzione, logistica e artigianato avanzato: l’intelligenza artificiale progetta, ma qualcuno deve montare, riparare, adattare. Lavori tecnici, non “manuali” nel senso arcaico, ma concreti.
  • Formazione e riqualificazione permanente: insegnare ad altri a convivere con la tecnologia diventa esso stesso un lavoro. (Pensiamo alla massa di over-40 e over-50 che dovranno “reimparare”.)
  • Servizi di prossimità: piccole economie locali, legate al territorio, al turismo esperienziale, all’alimentazione sostenibile, all’assistenza agli anziani. Attività che richiedono empatia e presenza fisica.
  • Settori ambientali e rigenerativi: riforestazione, agricoltura sostenibile, rigenerazione urbana, gestione dei rifiuti intelligenti. Questi ambiti potrebbero diventare enormi serbatoi occupazionali, se solo venissero considerati strategici quanto i data center.

Il problema che in parte prevedo è che servirà ben più che una moral suasion per persuadere cittadini che ormai disdegnano lavori umili o semplici supponendosi superiore e meritevoli di “ben altro”.

Lavori “artificiali”, ma potenzialmente utili

In mezzo, c’è comunque una zona grigia: attività create per mantenere il tessuto sociale, non perché economicamente necessarie.

La sfida sarà non renderle fittizie come in Cina, ma riconfigurarle in chiave civica:

  • Custodia digitale e mediazione sociale: moderatori, fact-checker, community manager pubblici. Se ben progettati, potrebbero essere la nuova “amministrazione di quartiere”.
  • Educatori civici, culturali, ambientali: ruoli finanziati dallo Stato o da fondi UE per presidiare territorio e valori. (Lavori “di utilità sociale 2.0”)
  • Servizi culturali e creativi diffusi: animazione territoriale, recupero di archivi, divulgazione scientifica, micro-produzione audiovisiva. L’AI genera contenuti, ma serve qualcuno che li contestualizzi e li renda fruibili.

Le opportunità davvero nuove, ma ancora embrionali

Se guardiamo oltre i prossimi 5-10 anni, ci sono frontiere ancora inesplorate, che potrebbero dare vita a nuove economie:

  • Economia dell’esperienza e dell’identità: professioni legate alla personalizzazione estrema (moda, benessere, branding personale).
  • Simbiosi uomo-AI: designer cognitivi, psicologi dell’interazione, curatori di ecosistemi digitali (figure tra il tecnico e il filosofo).
  • Economia della memoria digitale: conservazione, archiviazione e autenticazione di dati personali (un domani sarà un bene prezioso).
  • Gestione della scarsità artificiale: esperti di sistemi tokenizzati, reputazione digitale, mercati del tempo e dell’attenzione.

La vera questione: non quali lavori, ma quanta società

Tutto questo, però, è cosmetico se non si affronta la questione di fondo: non ci sono abbastanza lavori economicamente giustificabili per 8 miliardi di persone in un mondo dove la produttività marginale dell’uomo tende a zero. Quindi la sfida non è inventare “nuovi lavori”, ma inventare nuovi scopi (e guardate che esiste ed è concreta l’alternativa di guerre globali che decimino la popolazione).

Trasformare il lavoro da necessità a funzione sociale e identitaria, e questo richiede un cambio di paradigma:

  • educare all’utilità non economica (cura, cultura, comunità),
  • ripensare la redistribuzione del valore prodotto dall’AI,
  • e soprattutto, ridare senso all’essere utili senza essere produttivi.

Intelligenza artificiale e futuro del lavoro

Il vero problema non affrontato resta: cosa succede a una società dove la maggioranza delle persone non ha uno scopo produttivo? Le élite tecnologiche parlano di “liberare l’umanità per attività creative” – ma è pura retorica. La creatività senza necessità economica e riconoscimento sociale diventa hobby, non identità.

Stiamo correndo verso questo precipizio senza nemmeno una bozza credibile di paracadute sociale. E chi dovrebbe progettarlo – i politici che non capiscono la tecnologia, i sindacalisti che mobilitano i pensionati per i gazawi o i tecnologi che non capiscono la società?

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