La privacy non esiste più: donna seleziona profilo utente illuminato tra icone digitali interconnesse

«Il re è nudo»: perché la privacy è diventata il più grande teatro dell’assurdo del nostro tempo

L’illusione collettiva

La privacy non esiste più? Aldo Grasso oggi lancia una provocazione sul Corriere: aboliamo la privacy. La sua è stata liquidata come boutade, ma ha sollevato – una volta tanto – il velo su una verità che tutti fingiamo di non vedere. Non è che la privacy non esista più – peggio: continuiamo a fingere che esista, costruendo cattedrali burocratiche attorno al suo cadavere.

Viviamo di fatto in un paradosso quotidiano. Forse, questa mattina avete firmato tre consensi privacy – dal farmacista, sull’app della banca, su un sito di e-commerce. Stasera i vostri dati saranno già stati venduti, aggregati, analizzati e rivenduti almeno una dozzina di volte. Nel frattempo, un algoritmo avrà dedotto se siete depressi, se state per cambiare lavoro, se vostra moglie è incinta prima ancora che lo sappiate voi. Domani firmerete altri tre consensi, in un rituale che ha perso ogni significato se non quello di alimentare se stesso.

La burocrazia del nulla

L’Italia ha trasformato la privacy in una industria che vale miliardi e che protegge tutto fuorché la privacy stessa. Abbiamo 160 dipendenti o suppergiù al Garante, migliaia di Data Protection Officer, tonnellate di documentazione che nessuno legge. Ogni piccola associazione sportiva ha la sua informativa privacy di 15 pagine. Il dentista vi fa firmare moduli che neanche l’FBI richiederebbe. E mentre voi firmate, i vostri dati sanitari viaggiano su server che perdono più di un colabrodo.

Il caso Equalize-Striano non è un’eccezione: è la norma che per sbaglio è finita sui giornali. Migliaia di accessi abusivi ai database dello Stato, dossieraggi come prassi consolidata, informazioni vendute al miglior offerente. Il tutto mentre noi continuiamo a recitare la pantomima del consenso informato.

Tuttavia, il problema vero non è nemmeno l’ipocrisia del sistema. È che non sappiamo neppure più cosa stiamo fingendo di proteggere.

Supposizione vs realtà

Chiediamo a dieci persone cosa intendono per privacy e otterremo dieci risposte diverse. Il più delle volte scopriremo che vogliono nascondere al partner i messaggi WhatsApp, non far sapere al capo che cercano altro lavoro, evitare pubblicità troppo precise. Piccole ipocrisie quotidiane, non diritti fondamentali.

Nel frattempo, proteggiamo ossessivamente l’inutile: il consenso per una newsletter, i cookie di un blog amatoriale, la liberatoria per la foto della recita scolastica. Ma lasciamo completamente esposto l’essenziale: i nostri pattern comportamentali, i metadati che rivelano più di qualsiasi contenuto, le inferenze algoritmiche che ci conoscono meglio di noi stessi.

Un esempio illuminante: firmate venti moduli privacy dal dentista, ma l’ASL ha database accessibili a chiunque abbia le competenze basiche di un hacker quattordicenne. Le app di salute con cui monitorate il battito cardiaco mandano tutto in California e da li vengo reindirizzate verso quanti ne fanno richiesta, mentre voi vi preoccupate che il farmacista possa teoricamente violare il segreto professionale.

L’Europa e il GDPR: una tigre di carta, ma premium

L’Europa si è data il GDPR, spacciandolo come il gold standard mondiale della protezione dati. La realtà? Una normativa che ha creato più consulenti che protezioni reali. L’Irlanda, sede europea di tutti i giganti tech, commina multe che per Google rappresentano il fatturato di qualche minuto. La Germania applica il regolamento con rigore teutonico, salvo poi scoprire che i dati finiscono comunque nei server NSA.

Il GDPR è diventato il simbolo perfetto della nostra schizofrenia: complessissimo nell’applicazione, inefficace nella protezione. I cookie banner che accettate meccanicamente ogni giorno sono il monumento a questa futilità – un fastidio che non protegge nulla ma ci fa sentire protetti.

Il sistema politico come capolavoro del doppio standard

È nella politica che il teatro dell’assurdo raggiunge vette sublimi. Ogni schieramento invoca la privacy quando la subisce e la viola quando può farlo. Il sistema dei dossieraggi non è un’anomalia da correggere, ma è l’infrastruttura invisibile del potere.

La visita del consigliere del Garante Privacy ad Arianna Meloni non è uno scivolone, ma la fotografia perfetta di come funziona il sistema. Il controllore che va a consulto dal controllato, in un cortocircuito che neanche Kafka avrebbe osato immaginare.

Il governo – qualsiasi governo – urla allo scandalo per le violazioni della privacy mentre costruisce l’Anagrafe Tributaria interconnessa, il fascicolo sanitario elettronico centralizzato, il sistema SPID che dà accesso a tutto con un click. L’opposizione – qualsiasi opposizione – denuncia la sorveglianza fino al giorno in cui prende il potere e scopre quanto sia comodo sorvegliare.

Tutti sanno che esistono sistemi di dossieraggio. Tutti li usano quando possono. Tutti fingono indignazione quando vengono scoperti. Nessuno vuole veramente fermarli: potrebbero servire domani. È la mutua vulnerabilità che garantisce la stabilità del sistema, una pace mafiosa basata sul ricatto reciproco.

La verità che non vogliamo ammettere

La privacy del ventesimo secolo – quella zona di riservatezza personale inviolabile – è morta. Non tornerà. È stata uccisa non da un Grande Fratello orwelliano ma da mille piccole comodità a cui non vogliamo rinunciare: lo smartphone che ci geolocalizza ma ci porta a casa, l’assistente vocale che ci spia ma ci fa comodo, il social che ci profila ma ci connette.

Invece di elaborare il lutto e ripensare cosa voglia dire protezione dell’individuo nell’era digitale, abbiamo scelto la finzione collettiva. Abbiamo costruito un apparato burocratico monumentale per proteggere qualcosa che non esiste più, come i bizantini che discutevano del sesso degli angeli mentre i turchi erano alle porte.

Cosa dovremmo davvero proteggere

Se vogliamo uscire da questo teatro, dobbiamo prima capire cosa davvero necessita protezione nell’era digitale. Non la segretezza dei dati – quella è una battaglia persa – ma:

  • L’autonomia decisionale
    Il problema non è che Amazon sa cosa comprate, ma che può manipolare cosa comprerete. Non è la conoscenza ma l’uso manipolativo della conoscenza.
  • La reversibilità
    Il vero diritto all’oblio, la possibilità di evolvere, cambiare, ricominciare senza essere eternamente inchiodati a un dato momento della nostra vita cristallizzato nei database.
  • La simmetria informativa
    Se le aziende sanno tutto di noi, noi dovremmo sapere tutto di loro. Se lo Stato ci sorveglia, dovremmo poter sorvegliare lo Stato.
  • La non-discriminazione algoritmica
    Non essere esclusi da opportunità, servizi, prezzi equi sulla base di profilazioni invisibili e incontestabili.

Verso una nuova onestà digitale

La provocazione di Grasso di “abolire la privacy” è una provacazione, appunto: sbagliata nella soluzione ma giusta nella diagnosi. Non dobbiamo abolire la privacy, ma smetterla con la sua caricatura burocratica. Servono poche regole, chiare, applicabili e applicate:

  • Trasparenza vera: non moduli illeggibili ma sapere esattamente chi ha i nostri dati e cosa ci fa
  • Sanzioni vere: non multe-mancia ma percentuali del fatturato che facciano male davvero
  • Reciprocità: se tu sai di me, io so di te
  • Educazione: non si può proteggere ciò che non si comprende

Ma soprattutto, serve onestà intellettuale. Ammettere che gran parte di quella che chiamiamo privacy è solo ipocrisia sociale. Che proteggiamo le forme mentre vendiamo la sostanza. Che l’imperatore è nudo ma continuiamo a complimentarci per i suoi vestiti.

L’alternativa al teatro

Naturalmente, possiamo continuare con questa recita ancora per anni. Firmare consensi inutili, fingere indignazione per violazioni che diamo per scontate, alimentare un’industria della compliance che non protegge nulla. Oppure possiamo guardare in faccia la realtà.

La privacy tradizionale è morta. Al suo posto serve un nuovo patto sociale digitale, basato non sull’illusione del controllo totale sui nostri dati ma sulla trasparenza del loro uso, sulla responsabilità di chi li gestisce, sulla possibilità di scelta reale – non tra “accetta” o “non usare il servizio”, ma tra modelli diversi di società digitale.

Il re è nudo. È ora di smetterla di fingere che sia vestito e iniziare a tessere abiti veri. Non sarà la privacy dei nostri nonni, ma almeno sarà reale. E in un mondo di finzioni digitali, la realtà – anche se scomoda – è già rivoluzionaria.

Perché alla fine, il vero scandalo non è che la privacy sia morta. È che continuiamo a fingere che sia viva, sprecando energie, risorse e soprattutto credibilità in un rituale che ha perso ogni significato. Come diceva Grasso citando Swift, a volte per risolvere un problema serve la soluzione più radicale. Non abolire la privacy, ma abolire la sua pantomima.

Sarebbe già un inizio.

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