Ricerca europea: perché l’Europa produce scienza ma perde la gara dell’innovazione
L’Europa domina la ricerca scientifica ma è in ritardo su USA e Cina negli investimenti. Analisi del gap tra eccellenza accademica e competitività industriale.
Ventisette paesi, centinaia di laboratori di eccellenza, milioni di pubblicazioni scientifiche. Eppure l’Europa continua a perdere terreno. Il paradosso è ormai sotto gli occhi di tutti: produciamo conoscenza di altissimo livello, ma non riusciamo a trasformarla in valore economico. Mentre la Cina sforna startup tecnologiche a ritmo industriale e gli Stati Uniti attirano i migliori cervelli del pianeta con stipendi a sei zeri, noi europei ci troviamo intrappolati tra burocrazia, frammentazione e mancanza cronica di capitali.
La nuova strategia europea sulle infrastrutture di ricerca e tecnologia, presentata a settembre 2025, prova a rompere questo circolo vizioso. Ma basta davvero un documento – per quanto ambizioso – a ribaltare decenni di scelte sbagliate?
Il divario che nessuno vuole vedere
I numeri raccontano una storia spietata. Nel 2025, gli investimenti privati in intelligenza artificiale negli Stati Uniti hanno raggiunto i 300 miliardi di dollari. La Cina ne ha investiti 91 miliardi. L’Europa? Appena 45 miliardi. Meno della metà della Cina, meno di un sesto degli USA.
Ma c’è un dettaglio ancora più doloroso: quando si tratta di pubblicazioni scientifiche di alta qualità, la Cina ha superato tutti. Nel 2024, il Nature Index ha registrato oltre 32.000 paper cinesi, con un aumento del 17% in un solo anno. Le università cinesi producono ormai il 60% in più di ricerca rispetto a quelle americane, e nove delle dieci migliori istituzioni di ricerca al mondo sono cinesi. Solo Harvard resiste nella top ten.
L’Europa? Scomparsa dai radar. Non per mancanza di talento – i nostri laboratori sfornano ancora ricerca di eccellenza – ma perché non riusciamo a tradurla in brevetti, prodotti, aziende. Nicolas Dufourcq, a capo del fondo sovrano francese Bpifrance, l’ha detto senza mezzi termini a settembre: “Siamo doppiamente colonizzati. Industrialmente dalla Cina, digitalmente dagli Stati Uniti.”
Non è retorica. È la fotografia di un continente che ha smesso di credere nel rischio imprenditoriale. Quando un ricercatore europeo vuole scalare un’idea, trova porte chiuse. Gli investitori preferiscono immobili, vino e – paradosso dei paradossi – azioni tecnologiche americane. Il risultato? I soldi europei finanziano l’innovazione altrui.
Trentamila laboratori che non si parlano
La frammentazione è l’altra faccia del problema. L’Europa ha oltre 30.000 infrastrutture di ricerca e tecnologia. Laboratori all’avanguardia, sincrotroni, cleanroom, centri di supercalcolo. Ma sono sparsi in ventisette stati, ognuno con le proprie regole, i propri finanziamenti, le proprie priorità nazionali.
Il 50% delle strutture per le energie rinnovabili e pulite è concentrato in quattro paesi: Germania, Francia, Paesi Bassi e qualche altro fortunato. I Balcani? L’Europa orientale? Il Mediterraneo? Vuoti. Desertificazione tecnologica.
Una startup italiana che vuole testare un nuovo materiale in una cleanroom tedesca si scontra con burocrazia kafkiana. Serve un accordo bilaterale. Autorizzazioni. Tempi biblici. Costi insostenibili. Nel frattempo, il concorrente cinese ha già fatto tre round di test e depositato il brevetto.
La Commissione Europea lo sa. Per questo propone un “one-stop-shop” europeo: un portale unico dove prenotare l’accesso ai laboratori come si prenota un volo. Un’idea sensata, sulla carta. Ma chi ci crede davvero? Chiunque abbia lavorato con i programmi europei sa che la semplificazione amministrativa è la promessa più ripetuta e meno mantenuta degli ultimi trent’anni.
La scienza come asset strategico (ma senza soldi)
Per la prima volta, la strategia europea tratta le infrastrutture di ricerca come asset industriale, non come ornamento culturale. La conoscenza non è più un bene comune da celebrare nei convegni, ma una risorsa da difendere, controllare, monetizzare.
È un cambio di paradigma radicale. E necessario. In un mondo dove i dati valgono più del petrolio e i semiconduttori sono armi geopolitiche, chi controlla i laboratori controlla l’innovazione. Gli Stati Uniti l’hanno capito da tempo. La Cina pure. L’Europa ci arriva con un ritardo imbarazzante.
Il problema, come sempre, sono i soldi. La strategia parla di 13-16 miliardi di euro da investire entro il 2030 solo nelle infrastrutture tecnologiche. Sembra tanto, finché non lo confronti con i 320 miliardi che gli USA investiranno nell’intelligenza artificiale nel 2025. O con i 16 miliardi annuali che la Cina mette sul piatto attraverso i suoi fondi pubblico-privati.
La European Investment Bank stima che serviranno almeno 13-16 miliardi solo per colmare i gap più urgenti in semiconduttori, energia pulita, IA e materiali avanzati. Ma la proposta della Commissione per il prossimo Horizon Europe è di 10,9 miliardi – per tutto. Ricerca di base, infrastrutture, programmi di accesso. Tutto.
Va detto: l’ambizione c’è. Ma il budget no.
I cervelli che scappano (e chi li accoglie)
Poi c’è il problema del talento. L’Europa forma ricercatori eccellenti. Poi li perde. Gli Stati Uniti offrono stipendi tre volte superiori, laboratori con budget illimitati, zero burocrazia. La Cina attira con contratti milionari e infrastrutture nuove di zecca.
Le università cinesi producono 77.000 PhD STEM all’anno. Gli USA ne sfornano 40.000. L’Europa ha numeri comparabili, forse superiori. Ma i nostri dottori di ricerca finiscono a Palo Alto, Shanghai, Boston. Non a Milano, Berlino o Barcellona.
Caroline Wagner, ricercatrice di politiche scientifiche all’Ohio State University, ha parlato di “crisi nazionale” per gli Stati Uniti dopo i tagli proposti dal governo Trump. Ma l’Europa è in crisi da vent’anni, solo che nessuno l’ha mai chiamata così. Abbiamo normalizzato la fuga di cervelli come se fosse un destino ineluttabile.
La strategia propone incentivi per attrarre talenti globali, rilancia il programma “Choose Europe”, parla di formazione manageriale per chi dirige le infrastrutture. Tutto condivisibile. Ma senza un ecosistema che premia il rischio, senza capitale disponibile per scalare le idee, senza una cultura imprenditoriale diffusa, continueremo a formare ricercatori per Silicon Valley.
La quinta libertà (che ancora non esiste)
La Commissione parla di una “quinta libertà” del mercato unico: la libera circolazione di ricercatori, conoscenza e tecnologia. Un concetto suggestivo. Dopo merci, capitali, servizi e persone, dovrebbe arrivare la libertà della scienza.
Il guaio è che le prime quattro libertà, dopo settant’anni, sono ancora piene di eccezioni, deroghe, ostacoli. Chi ha provato ad aprire un’impresa in un altro stato europeo sa di cosa parliamo. Chi ha trasferito la residenza fiscale idem. Chi ha provato a far circolare dati scientifici tra università di paesi diversi conosce il labirinto normativo che aspetta.
Immaginare che la “quinta libertà” funzioni meglio delle altre sembra ottimistico. O ingenuo. Eppure l’idea è dirompente: uno spazio europeo della ricerca senza confini, dove un laboratorio pubblico francese collabora con una startup ceca e un centro tedesco come se fossero nello stesso campus.
Se realizzata, questa visione cambierebbe tutto. Ma servono decisioni politiche coraggiose, non solo documenti strategici. Serve una governance europea che superi i veti nazionali, che imponga standard comuni, che distribuisca fondi in base al merito e non alla geografia.
Cloud sovrano o miraggio digitale?
Al centro della trasformazione c’è l’European Open Science Cloud (EOSC), il “cloud sovrano” per la ricerca. L’idea: creare uno spazio unico dove scienziati e imprese europee possano condividere, analizzare e riutilizzare dati secondo principi aperti e interoperabili.
Se funzionasse, sarebbe rivoluzionario. Un Google Scholar potenziato, un GitHub della scienza, un marketplace dei dati di ricerca. Tutto pensato per essere “AI-ready”, cioè pronto per addestrare algoritmi di intelligenza artificiale senza dover cedere i dati a giganti extraeuropei.
Il condizionale è d’obbligo. L’Europa ha una lunga storia di progetti digitali ambiziosi che si sono arenati. Galileo, il sistema di navigazione satellitare, ha impiegato vent’anni e miliardi di euro per diventare operativo. La Gaia-X, la piattaforma europea per il cloud computing, è ancora un cantiere aperto tra annunci, ritardi e obiettivi ridimensionati.
L’EOSC rischia la stessa sorte se non si risolvono due problemi: governance e interoperabilità. La governance, perché nessuno Stato vuole cedere il controllo dei propri dati scientifici. L’interoperabilità, perché oggi ogni paese ha i suoi standard, i suoi protocolli, le sue piattaforme proprietarie.
Geopolitica dei laboratori
C’è un ultimo aspetto, spesso ignorato nei dibattiti pubblici: la sicurezza. La strategia europea parla esplicitamente di “data sovereignty frameworks”, cornici giuridiche per proteggere i dati scientifici e tecnologici europei.
Tradotto: non vogliamo che la nostra ricerca finisca nei server di qualcun altro. Non vogliamo che i dati prodotti nei nostri laboratori pubblici – finanziati con tasse europee – vengano usati per addestrare modelli di intelligenza artificiale cinesi o americani.
È diplomazia scientifica. Ma è anche guerra economica. Chi possiede i dati possiede il futuro. Chi controlla gli algoritmi addestrati su quei dati controlla i mercati. E l’Europa, per troppo tempo, ha trattato la scienza come un bene universale, aperto, condiviso. Un atteggiamento nobile. Ma suicida in un mondo dove anche la fisica delle particelle è diventata geopolitica.
Gli Stati Uniti limitano l’accesso dei ricercatori cinesi ai loro laboratori più sensibili. La Cina controlla strettamente ogni dato che esce dalle sue infrastrutture. L’Europa deve decidere: continuare a fare la vergine vestale della scienza aperta, o proteggere i propri asset come fanno tutti gli altri?
L’illusione del libero mercato scientifico
Va riconosciuto: la nuova strategia segna un cambio di mentalità. Per decenni, l’Europa ha finanziato la ricerca come si finanzia la cultura. Un investimento pubblico necessario, ma senza pretese di ritorno economico. I laboratori erano musei della conoscenza, non fabbriche di innovazione.
Ora, finalmente, qualcuno a Bruxelles ha capito che non basta pubblicare paper su Nature per competere. Serve trasformare quella conoscenza in brevetti, prototipi, startup, filiere industriali. Serve un ecosistema integrato dove ricerca di base e applicazione commerciale non siano mondi separati.
Ma c’è un rischio: che questa retorica industriale rimanga, appunto, retorica. Perché passare dalla visione alla realtà richiede qualcosa che l’Europa fatica tremendamente a fare: decidere in fretta, investire in modo massiccio, accettare il fallimento come parte del processo.
Il venture capital americano finanzia cento idee sapendo che novanta falliranno. L’investitore europeo finanzia tre idee, chiede garanzie statali, pretende business plan decennali e poi si lamenta che non nascono unicorni.
Domande senza risposta
L’Europa ha le infrastrutture per competere con USA e Cina nella ricerca tecnologica?
Sì e no. Ha laboratori di eccellenza mondiale, ma sono frammentati, sottofinanziati e poco accessibili alle imprese. Senza investimenti massicci (almeno 13-16 miliardi entro il 2030) e una governance centralizzata, il gap con USA e Cina continuerà ad allargarsi.
Perché le startup europee faticano ad accedere alle infrastrutture di ricerca?
Burocrazia, costi e invisibilità. Molti laboratori pubblici sono pensati per la ricerca accademica, non per l’uso commerciale. Manca un portale unico, le procedure sono complesse e i tempi di accesso troppo lunghi. La nuova strategia promette un “one-stop-shop”, ma resta da vedere se verrà realizzato davvero.
Quello che nessuno dice
La verità è scomoda: l’Europa non è in ritardo per caso. È in ritardo perché ha scelto di esserlo. Ha scelto la prudenza invece del rischio, la regolazione invece dell’innovazione, la distribuzione geografica dei fondi invece della concentrazione sul merito.
Ha scelto di finanziare ventisette piccoli campioni nazionali invece di creare un unico gigante europeo. Ha scelto di proteggere le rendite di posizione invece di premiare chi vuole scommettere sul futuro.
Ora la strategia 2025 propone un cambio di rotta. Ma cambierà davvero qualcosa? O sarà l’ennesimo piano ambizioso che si arena tra veti nazionali, compromessi al ribasso e finanziamenti insufficienti?
La risposta la daremo tra cinque anni. Quando vedremo se l’Europa avrà costruito la sua rete di laboratori integrati, il suo cloud sovrano, il suo ecosistema dell’innovazione. O se continuerà a formare ricercatori brillanti che andranno a costruire il futuro altrove.
Fonti e approfondimenti
- European Commission: A European Strategy on Research and Technology Infrastructures (2025)
- European Commission: Bridging the Innovation Gap with European Technology Infrastructures (2025)
- OECD: Digital Economy Outlook – AI Investment Analysis (2024)
- Nature Index: Research Leaders 2025: United States losing ground as China’s lead expands (2025)
- European Investment Bank: Unlocking Innovation: Addressing the Funding Needs of EU Technology Infrastructures (2025)
- Recorded Future: Measuring the US-China AI Gap: 2025 Analysis (2025)
- Mario Draghi: The Future of European Competitiveness Report (2024)
